La nuova tendenza dell’antisocialità: la popolarità del rifiuto sociale e le sue conseguenze per la comunità

In un’epoca in cui l’ansia di visibilità è divenuta un marchio di fabbrica della nostra quotidianità, la riflessione di Michele Apicella, interpretato da Nanni Moretti nel film Ecce Bombo, risuona con particolare forza. La sua domanda, “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”, diventa simbolo di un dilemmatico dualismo: la tensione tra il desiderio di partecipazione e la tentazione di defilarsi per cercare una forma di visibilità più sottile. Questo pezzo di cultura pop rappresenta perfettamente un fenomeno contemporaneo, dove l’essere sociale è continuamente messo in discussione.

Essere asociali è diventato “cool”: un’indagine sul valore dell’assenza

Negli ultimi anni, l’asocialità ha acquisito un’aura di fascino che sfida le convenzioni tradizionali. Rendere la propria presenza invisibile nel panorama social diventa atto di ribellione e scelta di stile. Viviamo infatti in un’epoca in cui ogni gesto, ogni pensiero, ogni istante è condivisibile collegato al concetto di esistenza. La convinzione che “se non lo posti non è successo davvero” ci spinge a interrogarci sul significato e il valore della nostra partecipazione.

Persone di ogni genere, soprattutto i più giovani, rivendicano oggi la loro scelta di non essere sempre connessi. Espressioni come “Non ho social” o “Ho disattivato tutto” stanno diventando badge identitari, segni distintivi di chi decide di ritirarsi da una realtà sempre più esigente. Questa ritirata non è la mera fuga dalla socialità; al contrario, rappresenta un bisogno evolutivo di recuperare la propria identità in un contesto dove l’esposizione e la performance sono all’ordine del giorno.

Tutto può essere cool sotto alla giusta estetica

Il concetto di “coolness” associato all’asocialità nasconde però una questione più profonda. Perché ogni scelta deve essere giustificata tramite l’estetica del cool e dell’uncool? Questa situazione ci porta a riflettere su una narrativa che tende a giudicare e classificare ogni nostro gesto e ogni nostra decisione, trasformando anche la scelta di rimanere in disparte in un’opzione analizzabile e quantificabile.

In questo paradosso, l’assenza può diventare una forma di presenza, più rarificata e quindi più desiderabile. Negli ultimi anni, i giovani hanno mostrato un netto calo delle interazioni sociali. I dati del Dipartimento americano della Salute rivelano statistiche inquietanti: i ragazzi tra i 15 e i 24 anni passano circa il 70% di tempo in meno con gli amici rispetto a vent’anni fa e sono molto più inclini alla solitudine.

“Non mi vedi più nei posti, ma guarda come bene sto nel mio vuoto”

Essere asociali oggi non è solo un’apparente affermazione stilistica, ma anche una necessità economica. Con il costo della vita che aumenta, un’uscita serale può diventare un vero e proprio lusso, mentre la socialità si privatizza. La casa si trasforma in un palcoscenico, dove si consumano esperienze condivisibili attraverso lo schermo. Non è più rifugio, ma teatro di posa per una performance silenziosa di vita domestica.

Questo glamour dell’asocialità presenta però dei rischi. Glamourizzare l’assenteismo può nascondere una sofferenza più profonda, legittimando forme di rassegnazione collettiva. Nonostante ciò, scegliere di staccare dalla frenesia sociale può essere identificata come un atto di autodifesa. L’importante è ricordarsi che la socialità non è solo piacevole; comporta anche responsabilità nei confronti della comunità. La propria assenza ha ripercussioni su chi ci circonda.

Alla fine, la vera sfida è trovare un equilibrio. È cool essere asociali? Dipende. Può essere la protezione necessaria in un mondo che ci travolge, ma non deve diventare una scusa per disimpegnarsi dalla vita collettiva. La nostra libertà individuativa non dovrebbe essere per forza classificabile; la questione si sposta verso l’autenticità delle nostre scelte.

Così, forse, la domanda non è tanto se sia “cool” essere asociali, ma piuttosto perché ogni nostra scelta debba essere incasellata in un’etichetta di valore. L’unica vera libertà potrebbe risiedere nella possibilità di vivere senza dover giustificare ogni gesto in base alla sua coolness, ma semplicemente essere nella propria verità. Essere presenti quando conta, evitare il superfluo, e lasciare le etichette dove appartengono: ai vestiti.